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City branding: il caso I love New York

Negli ultimi decenni il nostro mondo è sempre più caratterizzato dal fenomeno della globalizzazione. In questo contesto, ogni prodotto è in forte competizione con un numero sempre in crescita di concorrenti, rendendo una comunicazione efficace fondamentale per potersi distinguere.

Tale logica non sembra riguardare solo la mera vendita di prodotti. Anche i luoghi e i Paesi, ad esempio, sono ormai in forte competizione l’uno con l’altro per la propria fetta di turisti, consumatori e imprenditori, e anch’essi devono dunque far leva su una comunicazione coerente e adeguata. Così nasce il city branding.

 

Il branding di un luogo

Fare attività di branding non riguarda solo l’applicazione di un logo su materiale promozionale, ma definisce l’intero processo di creazione e comunicazione di un’identità.

Molto spesso succede che la reputazione di un luogo sia basata su banali stereotipi che ne riducono lo spessore. Per questo motivo, fare branding per una città è una grande opportunità per migliorare e rilanciare la propria immagine. Una peculiarità di questo processo è che, a differenza di un prodotto – che può essere creato ad hoc – una città è una realtà consolidata che non può essere cambiata, ma solo riscoperta nella sua natura più affascinante e unificante. Non si parla semplicemente di pubblicità, ma soprattutto di superare i luoghi comuni per guadagnarsi reputazione e fiducia, sia della popolazione estera che quella della città stessa.

Il caso I love New York

Uno degli esempi più emblematici e conosciuti di questo processo è quello di New York e il suo famosissimo slogan: “I ❤ NY”.

È difficile trovare qualcuno che non abbia mai incrociato questo simbolo, nella sua versione originale o nelle innumerevoli copie, ma generalmente sono pochi coloro che sanno la storia della sua nascita e l’impatto che ha avuto su una New York che, ai tempi – nel 1977 – era ben diversa da come oggi la conosciamo.

 

1977: sull’orlo del baratro

Intorno alle 21:30 del 13 luglio 1977, New York sprofondò nel buio a causa di un’avaria alla rete elettrica della città provocata da alcuni fulmini. Il blackout cessò quasi ventiquattro ore dopo, alla fine delle quali erano stati saccheggiati 1.616 negozi e arrestate 3.776 persone.

Questi dati non sono che il sintomo del fatto che il blackout colpì una New York al culmine di un grave periodo di decadenza. La città, infatti, stava affrontando una forte crisi finanziaria ed era afflitta da altissimi livelli di disoccupazione oltre che di criminalità. Solo due anni prima, a causa di un ampio taglio al personale, vennero licenziati circa 50.000 tra poliziotti e vigili del fuoco.

Al picco del disastro, fu organizzata una campagna pubblicitaria intitolata “Welcome to Fear City” (“Benvenuti nella Città della Paura”), cui messaggio principale era una raccomandazione: stare il più possibile lontani da New York.
Demonizzata dai giornalisti di tutto il mondo, l’immagine della città non era mai stata così danneggiata e doveva essere trovata in fretta una soluzione.

Fu allora che il Department of Commerce (DOC) di New York decise di intervenire. Aumentò il budget annuale dedito al turismo da $400.000 a $4.3 milioni per finanziare la campagna di re-branding più forte e di vasta portata che lo Stato avesse mai visto.

 

La campagna pubblicitaria

L’incarico venne affidato all’agenzia pubblicitaria Wells Rich Greene, che molto presto creò il famoso slogan “I love New York”. Una volta prodotto il motto, era necessario un logo.

Fu la stessa agenzia a commissionarlo a Milton Glaser, un graphic designer già noto per essere il co-fondatore del New York Magazine e l’autore della famosa copertina dell’album “Greatest Hits” di Bob Dylan. La scelta fu semplice, visto il forte amore di Glaser per la sua città natia: “I think I am the city. I am what the city is. This is my city, my life, my vision.” (“Penso di essere la città. Io sono ciò che la città è. Questa è la mia città, la mia vita, la mia visione”), racconterà, infatti, al New York Times.

Dopo alcune veloci prove, Glaser era ancora insoddisfatto. Fu nel retro di un taxi che, dopo un’illuminazione, scarabocchiò con una matita rossa il primissimo, iconico “I <3 NY”. E il resto è storia.

 

 

Entro il 1978, I ❤ NY ribaltò le sorti dello Stato, aumentando gli introiti da parte dei visitatori da $500 milioni nel 1976 a $1,6 miliardi nel 1977. La campagna, che doveva durare solo qualche mese, finì per proseguire per diversi anni e divenne parte della cultura stessa di New York.

Uno dei fattori di successo di questo simbolo, secondo lo stesso Glaser, è stato la sua duplice natura: da una parte è immediatamente leggibile, dall’altra costituisce un piccolo “puzzle”. “Bisogna capire che la “I” è una parola completa, che il cuore rappresenta il simbolo di un’esperienza e che “NY” sono le iniziali di un luogo.” Risolvere questo “problema”, anche se nell’arco di decimi di secondi, è ciò che fa inconsciamente sentire bene e appagati.

 

 

Il segreto del successo

La popolazione si sentì per la prima volta parte di qualcosa, unita sotto uno stesso simbolo, una stessa cultura, una stessa anima. “Penso che l’effetto più profondo sia avvenuto internamente, ha ricordato ai cittadini di New York il loro stesso dovere per la città” dirà Glaser “Una cosa che sappiamo è che la realtà è condizionata dalle credenze”.

“Qualunque cosa tu creda, sarà ciò che percepisci dalla realtà. E quando le persone pensavano ‘questo è un posto terribile’ lo era; il giorno che invece hanno pensato ‘questo è un posto fantastico, voglio vivere qui’ lo è diventato”.

Questo pensiero riassume perfettamente il grande impatto che può avere il branding sulla percezione che si ha di un luogo o un prodotto. In questo caso, è riuscito addirittura a rovesciare completamente il destino di un intero Stato e rendere New York nota, amata e attiva come oggi la conosciamo.